VIA KUNDALUNA – VAL DI MELLO
Val di Mello, dimore degli Dei e scoglio delle metamorfosi
via KundaLuna VII o VI+ e A0
ripetizione: Eugenio Dreolin, Mauro Dall’Argine, 17/10/2023
Stomaci pelosi, gnomi, serpi, incantesimi e faggi dal tronco talmente grosso da sembrare irriconoscibili. Collego solo ora tutto ciò alla val di Mello, valle mitica in quanto cuore pulsante del nuovo mattino, magica in quanto di tanto in tanto tra l’erba verde brillante i numerosi ginepri ci si aspetta di scovare alcune creature. Sulle pareti compaiono pochi chiodi e i pochi tentativi di perforazione della roccia sono testimoniati solo da resti arrugginiti, quasi dei moniti. Riguardo alle vie dei “sassisti” della val di Mello ho tanto sentito parlare dello “scoglio delle metamorfosi” e la sua “luna nascente”. Pare sia considerata una delle più belle vie delle alpi, un autentico capolavoro della natura fatto e finito, pronto ad essere catturato dall’immaginario di chi sogna forme perfette lontane dalla corruzione dell’uomo.
Io ed Euge ci leghiamo per concatenare due giganti della valle: “il risveglio di Kundalini” e appunto “luna nascente”. Pare che con i mezzi alpinistici attuali, i 20 tiri di “Kundaluna” (nome fittizio che rappresenta la concatenazione delle due suddette vie) vengano sovente affrontati da molte cordate affiatate.
Vogliamo entrare in quel lontano spirito sessantottino e scovare le emozioni che i discepoli di Gian Piero Motti hanno provato.
Gli alpinisti classici sono ben diversi dai sassisti: se gli uni perseguono la “lotta all’alpe” e combattono eroicamente le grandi e difficili pareti nord, gli altri si divertono nella valle su pareti più brevi e temperature più docili. Questa affermazione è chiaramente riduttiva sia dall’una che dall’altra parte ma vuole aiutare a capire da cosa nasca il “nuovo mattino”.
Di fatto questo movimento rivoluzionario per l’alpinismo porta con sé dei fantasmi celati ai più, quali insicurezze, crisi esistenziali, incertezza per il futuro, fallimento.
Ma tornando a parlare di temperature, la mattina del 16 ottobre io ed Euge abbiamo sentito parecchio freddo usciti dal rifugio. Siamo riusciti ad anticipare di mezz’ora la colazione, un gran regalo da parte del gestore che ne avrà fin sopra i capelli delle richieste di tutti. Non c’è un minuto da perdere e come al solito il passo deciso del mio compagno mangia metri di sentiero e lancette dell’orologio.
Saliamo una corda fissa e al suo termine, sulla destra, comincia la traversata del risveglio di Kundalini, traverso che proteggo molto bene con grossi friends.
Giunto alla sosta mi giro per vedere se qualcun altro dei nostri nel frattempo è uscito dal rifugio, ma ancora nessuno: questa cosa pare darmi la speranza di riuscire a compiere l’impresa, dopotutto siamo già nel mezzo dell’arrampicata. Euge traversa ora a sinistra superando quello che pare essere il tiro chiave ben protetto da un paio di chiodi e mentre manovro le sue corde sento finalmente il lontano richiamo di alcuni nostri compagni istruttori.
Quasi dimenticavo: siamo nel mezzo dell’aggiornamento della nostra scuola C.A.I., un privilegio. In questa circostanza ognuno compila il calendario come meglio crede, almeno per quanto riguarda i compagni di cordata e gli itinerari da seguire, altro conto sono invece le lezioni teoriche utili a rendere edotto l’organico su nuove manovre e nuove trovate tecnologiche.
Raggiunto Euge alzo lo sguardo verso il terzo tiro. C’è poco da dire sulla bellezza delle prime lunghezze appena percorse che sono memorabili in quanto logicità ed estetica; ma questa serpe che fugge verso l’alto mi fa quasi ridere sguaiatamente dall’eccitazione.
“La serpe fuggente” è il titolo di un tiro di corda, è una fessura perfetta dipinta su un muro scintillante di nudo granito. E’ profonda in maniera ideale per giocare di incastro con mani e piedi, il suo labbro sinistro sporge leggermente consentendo anche la sua salita in stile Duelfer.
Salgo e presto l’eccitazione cede il posto ad una sana preoccupazione: non abbiamo così tante protezioni ed essendo piuttosto regolare la fessura, finisco presto i friends di misura grande e sono costretto a lasciare molto spazio tra una protezione e l’altra. Ad ogni modo questi oggetti offrono in questo luogo una sicurezza ben diversa da quella che ci si aspetterebbe da loro su altre pareti, magari calcaree o dolomitiche.
Raggiungiamo il grande arco al centro della parete e un tiro decisamente complicato ci porta proprio sotto al grande tetto: da qui si comincia a traversare verso destra sopra ad un piccolissimo bosco, denominato il “bosco degli gnomi” dagli apritori.
Abbiamo dovuto scendere un po’ per trovare una linea plausibile a metà del traverso, manovra che ci ha fatto perdere un po’ di tempo ma che ci ricorda che fare alpinismo è trovare soluzioni soddisfacenti a tanti, tantissimi problemi.
Si esce ora dal grande arco e ancora una difficoltà ci separa dalla sommità della parete, un tiro di corda difficile ed espostissimo se non altro ben protetto da qualche chiodo.
Usciti dalla via nemmeno ci fermiamo, agilmente marciamo nel bosco sommitale verso l’apparentemente vicino scoglio delle metamorfosi ma presto sbagliamo strada e il nostro entusiasmo comincia a vacillare. Questo inconveniente aumenterà lo stress quando ci troveremo appesi al freddo nella religiosa speranza di non dover percorrere difficili tiri nell’oscurità imminente delle 17 del pomeriggio o peggio doverci calare con difficoltà lungo traversi, spanci e strapiombi.
Raggiunto finalmente l’attacco notiamo due dei nostri poco più in alto. E’ un gran sollievo, se non altro per unire le forze e accendere la goliardia ed il cameratismo in parete.
Anche qui però, qualsiasi pensiero conforme alla filosofia del “nuovo mattino” viene ucciso dal primo tiro della “luna nascente”.
Ucciso è dire poco. La violenza che questa fessurina strapiombante a misura di dita ha adoperato su di noi pare essere stata maggiore di quanto sarebbe stato necessario per ucciderci, un overkilling per usare un inglesismo. Ucciso nell’orgoglio di arrampicatore libero, devo ammettere però di essere rinato nel rispolverare tecniche tratte da pagine di tanti alpinisti classici lette nell’ultimo periodo.
Appeso all’unico chiodo, prendo un piccolo friend che riesco pazientemente ad infilare nella minuta fessurina. Tasto la sua tenuta e cerco un cordino per farne una staffa: mi rendo subito conto che non ne ho bisogno. Con delicatezza inserisco due dita sulla fettuccia e traziono forte sul braccio. Mi porto abbastanza vicino ad una tacca discreta per la mano sinistra mentre il mio bicipite destro esplode, eseguo una spallata nuovamente col mio arto sinistro sul labbro svaso della paretina e mi incastro nel camino che porta alla prima visibile sosta su spuntone. Il mio sguardo cade su Euge che storce la bocca verso il basso a formare un ferro di cavallo, gli occhi sono sbarrati.
Tocca ad Euge il successivo tiro che riesce a liberare nonostante la difficoltà alta e sostenuta.
Si traversa sotto ad un gran tetto verso destra seguendo una fessura rovescia a volte buona, a volte svasa, a volte piccola in totale e precaria aderenza con i piedi. Nel sentirlo sbuffare mi preoccupo, in effetti si rivelerà molto impegnativo.
Appesi a due chiodi buoni e ignari di ciò che ci aspetta, guardiamo la parete sopra di noi che si sviluppa a diedro ideale, solcato nel centro da una profonda fessura. Come nella serpe della via precedente, il labbro sinistro della fenditura offre degli appigli meravigliosi per la tecnica Duelfer, mentre i piedi vengono premuti in opposizione sul liscio granito scintillante.
Comincio e noto che lo schema motorio si ripete e si ripete in una danza modulare senza fine. E’ meraviglioso arrampicare in questo modo così inusuale, è un’esperienza nuova che secondo Euge mi riesce anche piuttosto bene.
Ogni azione dinamica è appunto un modulo ed è praticamente uguale a quella precedente: ci si trova con mano destra che asseconda la direzione di carico della fessura e piede sinistro premuto saldamente in aderenza, poi la mano sinistra sale e tende un po’ a scivolare nonostante il piede destro aiuti, quindi di nuovo la mano destra tiene saldamente il labbro buono e offre assieme al piede sinistro un buon riposo.
Si continua su queste fessure regolari ora traversando a destra, ora a sinistra, ogni presa è lì dove deve stare, ogni minuscola asperità è lì ad accogliere il piede nel punto e momento giusti. La roccia è perfetta, grigia puntinata e resa brillante dal quarzo che talvolta taglia la parete con delle venature che vanno a perdersi nel mare di pietra.
Raggiungo Dobri che è sopra di noi con Stafano, abbiamo tantissimo freddo, il vento soffiando abbassa la temperatura percepita e in questo frigo aspettare fa male anche alla psiche.
Con un esposto traverso in discesa verso sinistra si rimonta la grande placca sulla parte superiore dello scoglio dove, causa la pressoché nulla possibilità di proteggere, ci si ritrova a tirare un sospiro di sollievo nel prendere tra le mani questa lama gigantesca quasi staccata della parete. In breve mi rendo conto che anch’essa è una fessura che precipita a perdersi fino a dove non la cattura più nemmeno la vista. Questa via è incredibile.
Seguiamo il fulmine sino a dove si restringe a misura di dita ed ogni passaggio è un gioco di incastro difficile ma solidissimo ed accogliente, accogliente perché la fessura è calda. Il freddo che sentiamo è smorzato da questo artificio termico; probabilmente essendo la roccia un ottimo conduttore rilascia ora il calore assorbito durante la sua esposizione diurna al sole.
Qui sulla luna la luce purpurea del tardo pomeriggio accompagna l’uscita dalla via lungo una facile (ma improteggibile e lunga) venatura di quarzo. Memorabile anche questa lunghezza, tutto sommato semplice ma che non ammette errori, poiché nel quasi camminare sulla cornice brillante appoggiata, il volo significherebbe pendolare al di sotto del margine superiore della parete.
L’ultimo tiro, ancora non proteggibile, è la didascalica placca appoggiata della val di Mello che ci porta al bosco sommitale dello scoglio delle metamorfosi.
Che emozione aver percorso “Kundaluna”, esserci riusciti nonostante il mio pessimismo e le condizioni forse avverse.
Si torna col buio alla Cascina Piana e toni calorosi hanno accolto il nostro arrivo in rifugio.
Il buon vino rosso della casa, forte e oleoso, mi causerà un bel mal di testa che farà compagnia alla già potente sinusite. Il cuoco Ismaele non ci lascia andare a dormire e dopo cena, tra gli aneddoti che si rincorrono in un turbinio concitato, continua a versarci il vino.
Ho voluto razionalizzare in questo testo delle sensazioni ma forse avrei dovuto tacere.
A meno che non si entri nella mia mente, è tutto riduttivo.
Andate lì e provate voi stessi l’ebbrezza di “Kundaluna”.
Mauro Dall’Argine