VIA DEL DRAGO – LAGAZUOI NORD
Via del drago, Lagazuoi nord
Difficoltà: TD (VI-)
Ripetizione: Mauro Dall’Argine e Stefano Figliolia, 16/06/23
Sprofondo nella neve un’altra volta e impreco nel vedere la parete del Lagazuoi nord ancora così lontana. Comincio a pensare che non sia una giornata buona: forse dovevamo portarci dei ramponi? una piccozza? Immagino la cresta di discesa colma di neve dura, le scarpe che ci scivolano sopra, il vuoto a destra e a sinistra. Fa molto freddo, è già tardi ed è ridicolo pensare di arrampicare a breve su una parete così repulsiva.
Qualcuno di importante ci ha disegnato una via su quei colori giallo-neri, qualcuno che credeva nell’etica di Messner, che faceva velocissimi concatenamenti sulle 3 cime di Lavaredo e che si opponeva alle “direttissime” allora di moda. Un uomo che conosceva i Nibelunghi, la mitologia tedesca e che ha capito di essere stato convocato dal grande Messner per resistere, salvare un drago ammalato, salvare una montagna non più indomabile.
Così Claude Barbier, a fine anni ’60, armato di entusiasmo e incredibili doti d’arrampicata, scrive sulle rocce di Fanis un libro di fessure, traversi e diedri che guarda alla vicina cima Scotoni richiamandone le sue selvagge atmosfere.
Di sotto seguo la cengia basale con gli occhi rinvenendo il possibile attacco: troppa esposizione, meglio legarsi. Muovendoci lungo la stretta cornice ecco comparire un chiodo, poi un breve caminetto, poi due chiodi di sosta. Sopra di me pilastri e camini, ancora più in alto una vertiginosa e lunga traversata a sinistra, poi un diedro maestoso. Saliamo in silenzio dentro uno strettissimo camino giungendo finalmente in parete aperta: da qui contempliamo molto più chiaramente l’intuito dell’alpinista belga. Questi ha visto in una linea effimera un silenzioso invito della natura. Ha agito come un compositore. Molti grandi musicisti in effetti sostengono di non aver composto una sinfonia ma di averla semplicemente visualizzata nell’aria poiché questa, seppur forse in un mondo metafisico, esisteva già.
Sosto scomodamente in piena parete sotto ad una fessura gialla con andamento verso sinistra e sento la pressione del vuoto. Stefano sale la fessura e lascia a me la successiva traversata con breve, seppur vertiginoso, passo in discesa. La parete muore su una cengia, ingresso del gran diedro finale. Saliremo a breve un lungo e faticoso tiro da 50 metri (dove di certo conviene allungare bene le protezioni) e quindi l’ultima difficoltà su placche nerastre. Le lunghezze finali sembrano non obbligate, la direzione è data da una sorta di camino, ben presto siamo sulla cengia sommitale con la speranza di trovare una cresta senza neve.
Tutto intonso: scendiamo con grande attenzione i suoi salti di III e II grado e siamo presto all’imbocco del canalone ovest. Dove ci saremmo aspettati uno scivolo di ghiaie ci troviamo invece una lunga lingua di neve dura ed è impossibile scendere a piedi. Il tempo passa e cerchiamo qualche fessura per i chiodi in un mare di ghiaie e sfasciumi. Mentre io estraggo l’ennesimo chiodo a vuoto, Stefano mi chiama poiché ha trovato un provvidenziale ponte naturale poco più in alto. Così mi calo in doppia per tutta la lunghezza delle corde e raggiunte le ghiaie mi lancio giù di corsa a recuperare lo zaino di Stefano lasciato all’attacco.
E’ in questo momento che arresto la corsa frenetica stregato da un’atmosfera che non saprei descrivere efficacemente.
Il vento soffia freddo ed è tardi, molto tardi. Le ansie relative a ritardi e convenzioni vengono convertite in sentimenti diversi, più viscerali e di origine ignota.
Davanti a me ancora la cima Scotoni ed il ricordo della via dei fachiri, il tutto coronato dalla luce spenta e purpurea del tardo pomeriggio. La malinconia e la nostalgia di casa mi invadono: mi manca stare fermo, dedicare tempo agli affetti, agli amici, alla mia ragazza. Ma dopotutto questo malessere non è poi così male.
Mi sveglio da questo sogno e di nuovo mi muovo verso la cengia basale. Recuperato lo zaino e ripresa la corsa verso il rifugio Lagazuoi, incrocio lontano Stefano che, corde in spalla, scende verso di me dal ghiaione: “Oooplop!” grido.
Ci aspetta una lunga salita al Lagazuoi e una lunga, lunghissima discesa sul sentiero “Kaiserjaeger”.
Penso, mentre il sole comincia a calare sulle rocce, a come salvare un drago.
Forse la risposta sta nell’associazionismo, nell’unire le persone e nell’educarle ad un alpinismo classico che potrebbe venire dimenticato.
Il drago sopravvivrà in tutti coloro che inseguiranno con rispetto le sue creste affilate, la sua pelle di pietra, i suoi tramonti di fuoco.
Mauro Dall’Argine