VIA CASSIN – PIZZO BADILE
Pizzo Badile
Via Cassin
800 m, VI+
Ripetizione: Eugenio Dreolin, Mauro Dall’Argine, 17-19/07/2023
Siamo al dodicesimo tiro di corda, impegnati a superare la maggior difficoltà tecnica della salita. La bocca e la gola mi si seccano, vorrei aprire lo zaino, estrarre la borraccia e bere avidamente fino all’ultima goccia. Non posso farlo, sarebbe stupido. L’acqua ci serve eventualmente per bivaccare, dobbiamo centellinarla, essere un po’ più “fachiri”.
Resisto e penso che nel 1937 di qua ci stava salendo Riccardo Cassin che di certo non lamentava questa fatica, questo appetito, questa sete. Sicuramente ce ne avrà avuta di sete ma per tre lunghi giorni ha resistito più di quanto avremmo mai potuto fare noi. E poi con gli zaini, piantando i chiodi, interpretando una parete oceanica dalla base di un ghiacciaio fino al lontano spigolo nord. Questo lecchese (ma friulano di origine) era un forte operaio e come lui stesso sancisce, cocciuto nel perseguire il fine.
Sul Pizzo Badile ha trovato la gioia del successo ed il dramma della perdita. Ha disegnato una via che per forza di cose rientra in quella mitica tetrade “cassiniana” che comincia dalle Dolomiti e arriva sino in monte Bianco: cima ovest di Lavaredo, torre Trieste, Grandes Jorasses e appunto Pizzo Badile.
Raggiungo Euge in sosta e mi congratulo. E’ tanto che non ci leghiamo assieme, avevo quasi dimenticato la nostra sintonia. Eppure sento quanto piccoli siamo sia nei confronti di una montagna in continuo e repentino cambiamento, sia nei confronti di quell’apparato mitologico di cui Riccardo Cassin fa parte e per il quale nutriamo un quasi religioso rispetto.
Il Pizzo Badile è questa montagna granitica di una bellezza senza limiti. Sembra la montagna che disegnerebbe un bambino: un’iperbole, un’esagerazione. E’ di confine tra Svizzera e Italia. Da quando la rovinosa frana del Cengalo ha cambiato non solo la montagna ma anche le vallate circostanti, il club alpino svizzero ha attrezzato un faticosissimo sentiero che dal paese di frontiera “Bondo” porta alla capanna “Sasc Furà” in un continuo salire per tratti attrezzati e scalini di roccia, radici e legni vari.
Incrociare il torrente suona confortante: ci tuffiamo dentro il viso e ci strofiniamo bene braccia e ascelle. Lo zaino mi pesa, mi affatica le gambe e mi ricorda incessantemente che dobbiamo portarci questo peso appresso per tutta la parete nord- est del Badile.
Euge marcia agilmente davanti a me e pare non faccia nemmeno troppa fatica. Mi sono sempre domandato se il suo fiato dipenda dall’allenamento o da una genetica invidiabile. Giungiamo ad una malga dove veniamo salutati dal sorriso sdentato di un contadino che interrompe volentieri la falciatura del prato per qualche istante. Da qui entriamo e usciamo dal bosco più volte prima di trovarci al cospetto del Pizzo di Trubinasca e del Badile.
Comincerà presto una lunga discesa in direzione est verso la capanna e ci arriveremo abbastanza presto, se non altro prima del previsto: eppure la rifugista sembra riprenderci per essere in ritardo. Dopotutto sono le 19.30 ed ecco arrivare una pentola colma fino all’orlo di pasta. Cominciamo a mangiare e dalle montagne scendono due spagnoli che hanno percorso la Cassin e sono tornati indietro per il versante Svizzero, probabilmente attraverso il passo del Porcellizzo e quello della Trubinasca. Mastichiamo, assieme agli spaghetti, un po’ di spagnolo e riusciamo ad ottenere alcune preoccupanti, seppur utili, considerazioni. Il tiro di VI+ è duro, la via è parzialmente bagnata, la discesa dal versante svizzero sia affrontata per lo spigolo nord che per i già menzionati passi è troppo scomoda e difficile. Com’è facile lasciarsi condizionare dalle altrui considerazioni dimenticando che siamo tutti diversi dopotutto.
La stanchezza ci fa dormire molto bene, cosa per me mai scontata.
Andiamo a letto con la luce e la sveglia è fissata alle 3.45.
Con grande efficienza ci presentiamo in cambusa già pronti a partire, giusto il tempo di mandar giù la colazione che con le torce frontali marciamo a buon ritmo verso i profili scuri del Badile. Questo rompe la linea dell’orizzonte con la sua forma inconfondibile sotto una volta celeste piena di stelle. All’inseguimento sembrano esserci solo due cordate lontane.
Il sentiero non è sempre perfettamente evidente ma raggiungere la piccola sella tra spigolo ed il suo avancorpo non è risultato un problema seppur qualche volta ci siamo trovati titubanti.
In un paio d’ore raggiungiamo l’attacco di quella che oggi prendo il nome di variante Rebuffant: ci si cala in doppia per 25 metri dalla sella, si cammina lungo la comoda cengia, si raggiunge (nel nostro caso) il nevaio e lo si passa camminando su uno stretto corridoio al suo interno, un’operazione non banale e in alcuni punti spaventosa vista la crepacciata che va via via restringendosi nel buio.
Arriviamo alla base di due camini molto irregolari e tocca ad Euge inaugurare i nostri 25 tiri di corda. Inutile contestare questo numero, la via non finisce di certo sullo spigolo nord che è sempre esposto e mai banale in termini arrampicatori.
Raggiungo Euge e solo due spagnoli sono davanti. Tocca a me il diedro Rebuffant e con qualche passaggio di VI- mi lancio all’inseguimento della cordata che scivola rapida optando per qualche tiro in conserva (en ensamble dicono loro).
Usciti a sinistra dal diedro, un sistema di fessure meravigliose e inequivocabili conduce con logica alla sosta.
Recupero Euge e ho il tempo di guardarmi attorno data la luce dell’alba: i seppur modesti seracchi del ghiacciaio sottostante rendono l’ambiente così diverso da quello delle nostre Giulie, Carniche e Dolomiti.
Il silenzio è rotto con una certa costanza dal suono di rocce infrante che cadono dal Cengalo evidentemente causa il disgelo.
Timidamente alzo lo sguardo e vedo questo scivolo colossale che si impenna curvandosi verso il cielo: qui corre la via Cassin.
Questo granito è stupendo, l’aderenza è rotta solo talvolta quando lo sfregamento dei piedi sulla parete rompe dei piccoli cristalli che insinuandosi sotto la gomma sembrano rendere scivolosi alcuni passi.
Ci alterniamo senza intoppi e superiamo un altro passaggio di VI , una meravigliosa lama rovescia in traverso dove la parete precipita vertiginosamente verso il ghiacciaio. Passaggio che inaspettatamente mi ha impensierito è il successivo V- ricco di sottili lamette. A questo punto però ci interrompiamo un momento poiché non riusciamo a trovare la sosta. I due spagnoli addirittura si calano in doppia per cercare la via corretta mentre Euge si sposta molto a destra comunque senza successo. Sosterà su un paio di buonissimi friends e seguiremo così senza percorso obbligato le placche che conducono alla grande cengia.
Facciamo qui una breve pausa quando, a parte il regolare infrangersi delle rocce del Cengalo, il silenzio è rotto dalle pale dell’elicottero: assistiamo al soccorso di due persone sullo spigolo nord. Ovviamente questa prontezza nei soccorsi non può che esserci di conforto in questo mare (dove il naufragar c’è dolce).
Ma penso di nuovo che questo naufragar non è stato poi così dolce per i lecchesi. E’ facile per noi aver la strada spianata da così tante ripetizioni. Tante volte inorridisco nel sentire riferimenti plaisir a vie che hanno alle spalle una storia di grandi fatiche e grandi sacrifici. Appostato alla capanna Sciora, Riccardo Cassin con i suoi decide ad un certo punto di attaccare la parete direttamente dal ghiacciaio alle 10 del mattino. Tre giorni di maltempo lo separeranno dall’obiettivo, due bivacchi e la perdita di due compagni. E se quest’uomo riusciva a resistere è perché per lui battere un chiodo non era nulla. I chiodi se li forgiava.
Se è vero che l’alpinismo come dice Bonatti si fa con il cuore e con la testa, a me piace immaginare che oltre a quelli Cassin avesse dei muscoli leggendari.
Traversiamo in conserva lunga tutta la parete adagiata verso sinistra fino ad arrivare sotto un netto diedro alla cui destra si trova una sorta di contenitore d’alluminio. Da qui si percorre il tiro chiave, molto tecnico e continuo.
Si sale lungo il diedro e si traversa a destra a metà della sua lunghezza, lungo la linea abbozzata di un tetto.
Seguono due tiri continui attorno al VI grado di una bellezza senza confini dove anche qui l’arrampicata è una danza, mai estrema.
Siamo ora al cospetto di una spaccatura inclinata verso sinistra che porta ad un diedro appoggiato che porta a sua volta al secondo bivacco Cassin. Bivacco a tutti gli effetti dato che messi i piedi su questo piccolo pulpito alzo uno sciame di mosche posate su una gigantesca deiezione. L’odore è insopportabile.
Supero il gradino e trovo la sosta. Da qui una spaccatura fenomenale e non difficile ci porta alla base del camino terminale della parete.
Tocca a me il primo tiro in camino, lunghezza che mi procurerà disagi importanti vista la sua misura strettissima.
Ricordo sempre che i pionieri dell’arrampicata in montagna insegnano che il camino non va mai affrontato spingendosi al suo interno ma arrampicando esternamente in opposizione, sfruttando eventualmente anche la liscia parete che lo delimita. Probabilmente sarò molto scarso in camino poiché mi ci sono incastrato dentro con lo zaino manco fossi sulle pareti americane. Sopra di me lo spagnolo ride nel vedermi combattere con tutto me stesso per strisciare e liberarmi da quell’oppressione insopportabile.
Ho trovato molto difficile quel tiro che da relazione si aggirerebbe sul V+. Per me sicuramente non attribuibile di un grado, sicuramente duro. Il camino poi si divarica e la sua sezione diventa rettangolare rendendo l’arrampicata non più di grande incastro ma molto più sostenibile seppur tecnica (difficile il passaggio in uscita). L’ultimo tiro in camino è forse a mio giudizio il più semplice dei tre.
Mentre usciamo da questo budello però ecco che il tempo comincia a cambiare e in fretta. Non bisogna dimenticare che siamo oltre i 3000 metri. Non so bene cosa ci convenga fare, se correre e schivare la perturbazione o fermarci un attimo (d’altronde mancano due tiri per raggiungere lo spigolo nord).
Sopra il confine Svizzero il cielo si scurisce e si alza un vento forte il ché ci porta letteralmente a correre in verticale per guadagnare la cresta che sono io a raggiungere per primo. Seppur veda chiaramente la direzione da seguire, non sento sia una buona situazione.
Euge salta su senza parlare e parte senza indugio lungo lo spigolo, provvedo così ad assicurarlo. Monta su un gradino e si ferma. Si volta, mi guarda e mi fa: “Mauro mi sento prudere la pelle”. Inorridiamo ma non perdiamo la calma. “Ti calo qui sotto!”: dal punto dove si trova rinvia la corda e velocemente lo faccio scendere sino ad una sottile cengia sulla parete dove appronta velocemente una sosta per assicurarsi.
Io preparo velocemente una corda doppia che mi conduca da lui mentre l’aria friggendo produce un suono acuto.
Non appena scendo di un metro tutto cambia. “Qui si sta molto meglio” mi conferma Euge. Mentre estraiamo il guscio, cerchiamo come minimo di nascondere tutto il materiale metallico ed allontanare le corde. Noto che Euge ha il telefono all’orecchio e sta chiamando il soccorso per capire come agire in questa situazione d’emergenza: “Siamo poco sotto lo spigolo nord del Badile, al termine della via Cassin. Ok.. ok.. bene.. ok aspettiamo”. Mentre Euge parla io gesticolo per fargli aggiungere informazioni ma non ce n’è bisogno. Ci mettiamo il telo termico addosso, il piumino ed il guscio. Copriamo ancora i ferri e ci sediamo sopra lo zaino. Indossiamo i guanti, lasciamo le scarpette e sopra la testa approntiamo con un sacco lenzuolo una sorta di tendina. “Dobbiamo aspettare che passi la perturbazione. Guardando il radar, sarà un’ora e mezza”.
Due ore circa siamo rimasti appesi su questa cengia, assicurati sì ma comunque in piena parete.
Paradossalmente è il momento del quale conservo il ricordo più bello, più infantile.
Le emozioni che questo breve bivacco ha suscitato sono indelebili, una delle poche volte nella mia vita in cui una situazione di stallo mi ha per forza di cose reso calmo, paziente e grato. In questo intimo nascondiglio abbiamo visto tutto lo spettro del nostro umore. Il primo scroscio di pioggia lascia lo spazio ad un incredibile arcobaleno e ridiamo forte, sguaiatamente: qui nessuno può raggiungerci, forse solo i pensieri, in questo mondo che è solo nostro.
Ecco che salgono in un turbinio spaventoso altre nuvole e smettiamo subito di ridere per lasciare lo spazio al silenzio.
Euge scuote la testa mentre ci colpisce la grandine e io mi appoggio su di lui consolandolo e consolandomi facendogli qualche buffetto fraterno. Poi il buon Euge si addormenta e scatta pure come se avesse gli spasmi. Così lo seguo e comincio a russare per pochi minuti.
Ma ecco che ci chiama il soccorso: perturbazione finita! a breve tornerà il sole.
Ci alziamo sulle gambe atrofizzate e risaliamo con un machard le corde doppie per raggiungere il punto che ci ha dato tanta pena per poi legarci in cordata pronti per affrontare gli ultimi tiri di spigolo.
Ci lasciamo andare anche a qualche foto per drenare la tensione, dopotutto il sole si è fatto finalmente vedere svelando il versante italiano ed il verde lontano che lo caratterizza. Ma non durerà molto.
Infatti, al secondo tiro di corda, ecco di nuovo scurirsi il cielo.
E’ come se questa montagna ci avesse regalato magnanima un po’ di tempo ma non può certo cambiare così drasticamente l’inevitabile.
Per me questa situazione si configura come un vero e proprio tormento: ci illudiamo finalmente di poter cedere alla meraviglia ed allo stupore che di nuovo la priorità risulta correre. E senza errori.
Vediamo la piramide di vetta poco avanti ma non ha il sapore di vittoria, siamo ancora troppo esposti e il vento soffia così forte che mentre manovro le corde di Eugenio queste si alzano in orizzontale danzando e contorcendosi verso il versante italiano con una tale foga da non toccare mai terra.
“Cerca il bivacco! Cerca il bivacco! è più in basso, è giallo!” intimo ad Euge mentre letteralmente corre verso la cima. Così farò io quando lui manovrerà le mie corde. Arrivato in vetta vedo che Euge ha due priorità: avvisare la sorella, attaccare sulla piramide l’etichetta dei “Corsari delle Giulie”, gruppo alpinistico del quale fa parte ed è molto influente. “Euge hai visto il bivacco?” il mio sguardo saetta in tutte le direzioni. Conclude l’operazione. “Mauro io scendo, tu fotografa la piramide!”. Insomma, non risponde: riduciamo la comunicazione al minimo e confido tra me e me che questo santo bivacco lui l’abbia notato da qualche parte.
Lo raggiungo scendendo per una traccia evidente, perdiamo immediatamente quota e il vento è pressoché assente. “Euge stiamo scendendo per la normale!” “Si, lo so!” “Ma non è qui il bivacco!” “E che importa? scendiamo al rifugio!” Suona quasi ridicola questa frase, sono già le 19.00. Eppure l’idea di risparmiarsi la discesa l’indomani, la prospettiva di un letto o se non altro di una tettoia, sembrano suonare gloriose.
Questo versante non fa poi così paura, scendiamo fin dove riusciamo poi nulla ci vieta di appisolarci sulle rocce.
Le doppie lungo canali e canalini non vanno proprio lisce. Se non altro le cenge, che danno la direttiva ogni qualvolta si esaurisce un turno di doppie, sono talmente evidenti che pare impossibile sbagliarsi. Sento le gambe così pesanti che pondero ogni passo: il mio cervello, il mio pensiero, sono spalmati sulla suola delle mie scarpe, troppo facile fare un passo falso ora.
Raggiungiamo l’ultima doppia e saliamo sulla pietraia che si trasforma via via in prato e che per una traccia segnata ed “omettata” conduce al rifugio Gianetti. E’ qui che ci abbracciamo e sentiamo finalmente le difficoltà alle nostre spalle.
L’arrivo il rifugio, ormai al buio, ha avuto dei toni molto calorosi.
Un gruppo di persone appostate fuori (che avrà certamente notato queste torce frontali scendere dai piani) ci accoglie con rumorosi suoni di vocali. Come un fiume in piena raccontiamo la situazione finché esce col binocolo in mano il “mitico” (così veniva nominato in una foto appesa all’interno): Mimmo, il gestore del rifugio. Poche, pochissime parole. “Ciao/vi vedevo/siete stati veloci a scendere/ avete il vostro mangiare? bene, vi porto i cucchiai/ vi porto da bere/per dormire di sopra il dormitorio 2/quando andate a dormire spegnete la luce”. Rifugismo con la R maiuscola, di quelli dimenticati in certi angoli delle Dolomiti o ancora purtroppo in alcuni angoli delle nostre Alpi Giulie che richiederebbero un’attenzione particolare visto il loro essere ancora così selvagge e lontane dal grande pubblico.
Nella sala grande del rifugio siamo soli, alterniamo birra, acqua e fagioli in scatola. Presto la conversazione si riduce al minimo e le nostre fronti si appoggiano sul tavolo di legno.
La mattina ci si saluta abbastanza presto. La discesa risulterà molto lunga e umida: sulle nostre teste un violento temporale. Arriviamo a Bagni di Masino con una puntualità senza precedenti e non appena mettiamo i piedi sul piano erboso alle 10 del mattino, frena accanto a noi l’auto di Renza, l’autista che con la moglie porta ormai da 20 anni gli alpinisti da qui al confine Svizzero. Lei è della Val Masino, la moglie di Bergamo.
Lo scambio culturale che ha caratterizzato questa parte di viaggio è stato un valore aggiunto alla salita. Ci raccontano dei “crotti”, ci parlano dei pizzoccheri, ci raccontano dell’ambiente del Masino che non è poi lugubre come la Val d’Aosta, ci raccontano la loro storia. “Io ero sposata per conto mio, lei era sposata per conto suo. E ora siamo sposate noi due”. Le parole hanno questo accento strano, pieno di dieresi sulle vocali, come se il lombardo ed un lontano sapore tedesco si fondessero dolcemente. Ma è comunque una lingua dura, come dure e toste sembrano queste due signore.
In furgone ricostruisco la via nella mente e cerco una morale che “non serve ma aiuta” mentre il pensiero vola nuovamente a Riccardo Cassin.
Ernesto Lomasti giovanissimo cita “(…) cercare il freddo per amare il caldo, stare da solo per amare la compagnia, sopportare la fatica per amare il riposo, salire una cima per il suo versante più difficile per amare il più facile”.
Chissà quante motivazioni si celano dietro a ciò che facciamo. Torno al principio: io assetato che vorrei bere avidamente ma non posso. E mi viene da ringraziare questi posti, che ti assetano per farti scoprire l’indomani quanto buona sia l’acqua.
Mauro Dall’Argine