LA BIBLIOTECA SEGNALA…
Tra le recenti acquisizioni della nostra Biblioteca suggeriamo il libro di Renato Cresta “Piccole storie di grandi valanghe. Vola senza ali, vede senza occhi, colpisce senza mani” (2018, Mulatero Editore).
La storia delle più catastrofiche valanghe che si ricordano in Italia, raccontate dal più grande esperto in materia.
«Le valanghe di oggi non sono più quelle di una volta…». Sembra una battuta da bar, invece il riscaldamento globale sta modificando la qualità e la stagionalità della neve, influendo sul tipo di valanghe, più umide anche in alta quota e forse più concentrate in episodi estremi. …
Renato Cresta, anno 1936, è un appassionato di neve – anche se il genovese fino a ventidue anni ha vissuto sul mare. Solo dopo ha preso la via dei monti come ufficiale degli alpini paracadutisti, comandante e capitano del Plotone Atleti della Scuola Militare Alpina, maestro di sci alpino e di fondo, ex direttore sportivo della stazione di Macugnaga, dove vive tuttora con sua moglie. Oggi opera come consulente in materia di neve e valanghe ed è considerato uno dei principali esperti di nivologia e valanghe a livello internazionale con numerose pubblicazioni di successo, tra cui Valanghe, quello che devi sapere, edizione italiana di Avalanche essentials di Bruce Temper. In questo libro Cresta racconta di valanghe eccezionali ma poco note – dal disastro in Val Sesia (1845) alla tragedia in Val Chisone (1904) o quella di Macugnaga nel 1972. Le sue brevi storie sono avvincenti, legate strettamente a singoli personaggi che diventano i narratori dell’accaduto. Come scrive il meteorologo Luca Mercalli in copertina, «le valanghe di oggi non sono più quelle di una volta». Una vita passata con il soccorso sulle nevi, Cresta sa bene che per delineare futuri progetti e abitare in modo sicuro il territorio montano occorre conoscere a fondo il passato. Così ha «messo insieme una raccolta di brevi storie che hanno evidenziato la supremazia della natura sulla debolezza dell’uomo, incapace di comprenderla». Per poi dire, in conclusione, che l’uomo purtroppo non impara dai suoi errori.